Da anni il sex work è uno dei temi caldi del dibattito sociale e politico mondiale.
Un dibattito che si è ampliato soprattutto in questo anno di pandemia, in cui molti sex workers si sono trovati in seria difficoltà economica ed è cresciuto lo stigma sociale e la marginalizzazione nei loro confronti.
Ad oggi queste persone chiedono che il loro lavoro venga riconosciuto come tale e che, come in tutti gli altri lavori, siano definiti diritti e tutele per coloro che lo esercitano.
Perché usare la parola “sex work”?
Il termine sex work è relativamente recente, forse addirittura meno recente di quello che si possa pensare. È stato coniato nel 1978 dall’attivista Carol Leight, la quale, nel corso della prima conferenza stampa a San Francisco del collettivo femminista Women Against Violence in Pornography and Media, propose di sostituire il panel Sex Use Industry con il titolo Sex Work Industry.
Il termine è diventato di uso comune nel 1987, quando Frédérique Delacoste e Priscilla Alexander pubblicarono il testo Sex Work: Writings by Women in the Industry.
In Italia la parola sex work è arrivata decisamente dopo: nel 1994. È stata utilizzata per la prima volta dalle fondatrici del Comitato per i diritti civili delle prostitute Pia Covre e Carla Corso, dopo una riunione con vecchie amiche sex workers*.
Perché è importante utilizzare questo termine?
Perché ribadisce il concetto che il sex work è un vero e proprio lavoro, evitando ogni forma di stigmatizzazione e l’uso di termini dispregiativi. In più, è inclusivo: si riferisce a tutti i sex worker senza distinzione di genere o sesso.
Come gli Stati mondiali si approcciano al sex work
Ad oggi, sono diversi gli approcci legislativi che i Paesi di tutto il mondo hanno nei confronti del sex work.
In gran parte dei Paesi scandinavi (Svezia, Norvegia e Islanda) è in vigore un modello legislativo neo-abolizionista che punisce i clienti, con l’obiettivo – quasi utopico – di disincentivare ed eliminare nel tempo il lavoro sessuale. Questo approccio è stato adottato anche in Canada e in Francia.
Germania, Svizzera e Olanda hanno adottato un modello neo-regolamentarista. La prostituzione è regolamentata e riconosciuta come un’attività con un profilo legale e sono riconosciuti alcuni diritti dei sex workers. Tra cui– almeno in via teorica – la loro dignità, il loro riconoscimento come lavoratori e lavoratrici, e il diritto alla sanità.
La Nuova Zelanda, insieme al Nuovo Galles del Sud e al Northern Territory, ha adottato il modello della decriminalizzazione. Il lavoro sessuale è riconosciuto come un lavoro qualsiasi, senza essere regolamentato da leggi speciali, e può essere esercitato sia in luoghi al chiuso sia in luoghi all’aperto.
L’Italia, invece, come anche l’Inghilterra e la Spagna, è regolamentata da un modello abolizionista. In questi paesi la prostituzione è legale, ma non è riconosciuta come lavoro ed esistono alcuni reati legati all’esercizio della professione (come, ad esempio, il reato di sfruttamento della prostituzione).
Nel caso specifico, nel nostro Paese è ancora in vigore la legge Merlin del 1958, ovvero la legge di Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui. Secondo molti sex worker e secondo una buona fetta di opinione pubblica, la grande problematicità di questa legge sta nel non riconoscere la prostituzione come un lavoro e non prevedere, quindi, né diritti né tutele per coloro che lo esercitano. In più, oltre a non essere inclusiva (poiché fa esclusivamente riferimento alle donne e ad un solo tipo di prostituzione), esprime il concetto morale secondo il quale le prostitute sono unicamente delle vittime. Escludendo così tutte le persone che invece decidono autonomamente di intraprendere questo mestiere.
Cosa chiedono oggi i sex workers
Nel 2005, l’International Committee on the Rights of Sex Workers in Europe (ICRSE) ha organizzato a Bruxelles la Conferenza sul sex work, alla quale hanno aderito all’incirca 200 sex workers. Al termine della conferenza sono stati redatti due documenti che, ad oggi, sono un punto di riferimento per tutti i lavoratori sessuali: Il manifesto dei/delle Sex Workers in Europa e La Dichiarazione dei diritti dei/delle Sex Workers in Europa. Entrambi chiedono il riconoscimento di diversi diritti come, ad esempio, il diritto sui loro corpi (“Il sex work è per definizione sesso consensuale. Il sesso non consensuale non è sex work; è violenza sessuale o schiavitù). Tra le varie richieste, chiedono inoltre ai governi di disincentivare la stigmatizzazione nei loro confronti, di riconoscere come un crimine le violenze perpetrate contro di loro e di condannarle pubblicamente.
Durante la pandemia, sono aumentate la stigmatizzazione e la marginalizzazione sociale nei confronti dei sex workers. Si sono poi aggiunte una serie di difficoltà economiche strettamente collegate all’emergenza sanitaria.
In questo periodo, molti sex workers non hanno avuto la possibilità di lavorare, altri si sono approcciati al lavoro online, altri hanno visto aumentare la violenza nei loro confronti. Da qui, è diventata quindi ancora più pressante l’esigenza di vedere rivendicati i propri diritti, soprattutto da parte delle istituzioni e dalla società pubblica.
Nel suo libro Sex work is work, Giulia Zollino sintetizza perfettamente quali sono le richieste dei sex workers. Si tratta di richieste di diritti essenziali, troppo importanti da poter parafrasare.
Per questo le riportiamo così come le ha scritte:
“Vogliamo il riconoscimento e la decriminalizzazione del lavoro sessuale.
Vogliamo diritti, tutele e doveri in quanto persone lavoratrici.
Vogliamo associarci, unirci, organizzarci.
Vogliamo il diritto alla salute e l’accesso ai servizi sociosanitari.
Vogliamo la libertà di movimento, diritto di asilo e permessi di soggiorno per lavoro sessuale.
Vogliamo alternative lavorative, perché il lavoro sessuale non deve essere l’unica opzione.
Vogliamo non essere più vittime di discriminazioni, violenze e stigma.
Vogliamo essere ascoltat* e interpellat*.
Vogliamo essere visibili”.
Lo scontro contro la narrazione dominante
Oltre a combattere per il riconoscimento dei propri diritti, i sex workers stanno lottando per modificare la narrazione dominante dei media e della società sul proprio lavoro.
Attualmente, nel dibattito pubblico c’è una sorta di dicotomia di pensiero sulla rappresentazione delle persone che lavorano nel mondo del sesso: o sono vittime o sono persone che hanno messo su un vero e proprio business.
Si presenta quindi un duplice problema:
Nella narrazione –molto spesso pietistica – della rappresentazione delle sex workers come vittime, si tralascia completamente il concetto di autodeterminazione. Infatti, non viene minimamente preso in considerazione il fatto che il lavoro sessuale possa essere una scelta.
Da qui nasce anche in parte lo scontro con alcuni movimenti femministi i quali, invece, credono fermamente che il lavoro sessuale non possa essere una scelta completamente libera, ma condizionata da diversi fattori.La narrazione del sex work come business, invece, è estremamente fuorviante. Poiché spesso non si considera il privilegio di partenza di chi lo pratica. Comunemente, si tratta di persone bianche, di ceto medio-alto, di bell’aspetto e non migranti. Quindi si tratta di una narrazione di una realtà parziale, molto poco rappresentativa e poco inclusiva.
Per questo, i sex workers credono sia necessario non solo abbattere questa dicotomia, ma ampliare la narrazione che li riguarda. Come? Abbandonando lo stigma violento “della puttana” e imparando ad ampliare lo sguardo alla complessità delle diverse realtà che compongono il mondo del sex work.
Soltanto raccontando le storie dei singoli, le loro scelte, i loro vissuto, si può ricostruire una narrazione più ampia e inclusiva che possa dare valore e dignità a chi, in tutto questo tempo e non per sua colpa, non se le è mai viste riconoscere.
*fonte: G. Zollino, Sex Work is Work, S. Giuliano Mil, 2021, Eris Edizioni
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